IL PUNTO SU ... - PREVENZIONEDOC

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IL PUNTO SU ...

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Il 31 gennaio 2020, il Consiglio dei Ministri ha dichiarato lo stato di emergenza, per la durata di sei mesi, in conseguenza del rischio sanitario legato all'infezione da Coronavirus. Successivamente sono stati emanati una serie di provvedimenti governativi che da un lato cercano di arginare il diffondersi del virus, dall’altro, hanno l’obiettivo di evitare il blocco economico del nostro paese tutelando la salute di coloro che prestano la propria attività lavorativa nelle aziende non soggette al blocco imposto per ragioni sanitarie.
Le misure indicate dal Governo hanno generato un forte impulso nell’utilizzo del “lavoro agile” o “smart working”. In particolare l’utilizzo del “lavoro agile” aveva visto un discreto sviluppo solo nel settore privato, ma l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus ha permesso, anche nella Pubblica Amministrazione, l’ampio utilizzo di tale modalità di lavoro.
Va ricordato che, da un punto di vista normativo, è la legge 22 maggio 2017 n. 81 che disciplina il “lavoro agile” al capo II ed in particolare dagli artt. da 18 a 23. Tale norma impone alcuni passaggi obbligatori (quali, per esempio, l’accordo scritto con i lavoratori e l’informativa nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del ........

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Quelle morti in solitudine

Il nuovo decennio del secondo millennio non interrompe il lungo elenco di morti sul lavoro. Colpisce come, all’inizio di questo nuovo anno, i primi eventi siano caratterizzati da lavoratori che operavano in solitudine.
Il 16 gennaio 2020 muore a Massenzatico, in una cantina sociale, un uomo di 52 anni. E’ stato trovato dentro una cisterna per la fermentazione del lambrusco. Stava lavorando da solo.
Il 19 gennaio 2020, nel bresciano un mungitore è stato trovato morto da alcuni colleghi. Aveva la testa schiacciata da una porta scorrevole pneumatica.
Un imprenditore è stato trovato morto il 20 gennaio 2020 all’interno di una cava di Castiglione Torinese. I suoi congiunti, che non avevano notizie da ore ore, hanno dato l’allarme ma purtroppo i soccorritori sono arrivati tardi, l’uomo era già deceduto presumibilmente per un malore.
Sono solo gli ultimi eventi mortali di lavoratori che, lavorando da soli, non hanno potuto chiedere soccorso.
Naturalmente l’Autorità Giudiziaria stabilirà se un pronto intervento avrebbe potuto salvare loro la vita ma.......

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Jobs act: modificate alcune norme di sicurezza del lavoro
di G. Porcellana e M. Montrano (ASL TO3)


Sulla Gazzetta Ufficiale n. 221, S.O. n. 53, del 23-9-2015 è stato pubblicato il Decreto Legislativo  14  settembre  2015,  n.  151, recante “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione  delle  procedure  e  degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
Il Decreto previsto dal c.d. Jobs Act, è entrato in vigore il 24-9-2015, e contiene, al capo III,  misure  per  la  “Razionalizzazione  e semplificazione  in  materia  di  salute  e sicurezza sul lavoro”. Si tratta in particolare di due articoli, il primo dei quali, l’articolo 20, introduce modificazioni al D.Lgs. 81/08.
Le prestazioni occasionali di tipo accessorio La prima modifica riguarda l’applicazione delle norme  del  D.Lgs.  81/08  ai  lavoratori  che effettuano  prestazioni  occasionali  di  tipo accessorio. Nella Tabella 1 viene riportato il testo dell’art. 3, comma 8 del D.Lgs. 81/08 originario  e  quello .............................
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Le Linee guida sulle fibre artificiali vetrose
di G. Porcellana e M. Montrano (ASL TO3)

Nella seduta del 25 marzo 2015, la Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ha sancito l’intesa tra Governo, Regioni e Province Autonome inerente le linee guida “Le Fibre Artificiali Vetrose (FAV): Linee guida per l’applicazione della normativa inerente ai rischi di esposizioni e le misure di prevenzione per la tutela della salute”.
Sotto la denominazione di FAV è compreso un ampio sottogruppo di fibre inorganiche che, conla messa al bando dell’ amianto, hanno assunto, per le loro caratteristiche di isolamento termico e acustico, una rilevantissima importanza commerciale, con un largo impiego in svariati settori produttivi, in particolare nei settori dell’edilizia, del tessile e dei prodotti plastici.
In questi anni, l’attività di vigilanza svolta dallo SPreSAL dell’ASL TO3 ha portato ad identificaresituazioni di esposizione professionale a FAV di lavoratori addetti alla rimozione e demolizione di manufatti installati a suo tempo come coibentazione di controsoffitti o solai, oppure di lavoratori addetti alla manutenzione di macchine e impianti quali gruppi elettrogeni, forni…
Una tabella (Tab. 1) contenuta nelle Linee guida riporta i principali settori d’impiego delle FAV:


Tab. 1 – Principali settori di impiego delle FAV

L’argomento è stato trattato in passato dalla Circolare del Ministero della Sanità n. 23 del 25 novembre 1991, ma l’evoluzione normativa e il progresso delle conoscenze scientifiche richiedevano l’emanazione di nuove linee guida per favorire, come si legge nel nuovo documento, “l’adozione di misure di prevenzione adeguate, in linea con la vigente normativa, avendo come destinatari particolari, ma non esclusivi, sia i datori di lavoro e sia anche gli organi di vigilanza”.
Le linee guida si articolano in undici paragrafi e due allegati. Nel primo paragrafo viene definita l’identità e la classificazione delle FAV (Vedi Figura 1).



Fig. 1 – Classificazione delle fibre artificiali vetrose (IARC 2001)

La composizione chimica delle FAV può variare in modo sostanziale a seconda dell’utilizzo finale (diverse caratteristiche fisiche e chimiche per garantire performance diverse), delle modalità di produzione (variazioni nella composizione delle diverse lane) e della biopersistenza.
Le proprietà fisiche delle FAV evidenziano una struttura amorfa o vetrosa che, a differenza delle fibre di amianto, non prevede la possibilità di suddividersi longitudinalmente in fibrille. Le fibre amorfe, come le FAV, tendono a fratturarsi trasversalmente con tipica frattura concoide (detta «shell like») creando fibre sempre più corte ma senza la riduzione del diametro della fibra stessa.
Proprio il diametro delle fibre assume un rilievo nella potenziale pericolosità delle stesse, le FAV sono suddivise in 4 categorie a seconda del loro processo di produzione e delle dimensioni (Tab. 2).


Tab. 2 – Classificazione delle FAV (OMS, 1988)

Sotto il profilo della pericolosità, le Fibre Artificiali Vetrose possono penetrare nell’organismo attraverso le vie respiratorie e, in ragione delle loro dimensioni (diametro e lunghezza), di raggiungerne anche le diramazioni terminali più distali.
La probabilità che un determinato tipo di fibra possa indurre effetti patogeni all’organismo umano dipende da una serie di fattori quali forma, dimensioni, composizione chimica e mineralogica, reattività, biopersistenza (caratteristiche chimico-fisiche).
Le FAV, secondo il Regolamento (CE) n. 1272/2008 (CLP), sono classificate come lane minerali artificiali e fibre ceramiche refrattarie (Tabella 3). I criteri di classificazione tengono conto del diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza delle fibre e del contenuto degli ossidi alcalini e alcalino-terrosi.
Le fibre a filamento continuo con diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza > 6 μm, caratterizzate dalla proprietà di mantenere costante il diametro in caso di frammentazione sono esentate dalla classificazione poiché soddisfano i requisiti della nota R1.
Le fibre che presentano un diametro medio geometrico pesato sulla lunghezza ≤ 6 μm, sono da classificare come cancerogene di classe 1B, oppure di classe 2, a seconda del loro contenuto di ossidi alcalini e alcalino-terrosi.
Le fibre ceramiche (numero Indice 650-017- 00-8) si classificano come cancerogene 1B quando il contenuto di ossidi alcalini e alcalinoterrosi risulta 18% e le lane minerali (numero Indice 650-016-00-2) si classificano come cancerogene 2 quando il contenuto di ossidi alcalini e alcalino-terrosi risulta > 18%.
Per le lane minerali è applicabile la deroga dalla classificazione come cancerogeno se rispettano quanto previsto dalla nota Q e cioé la presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
- una prova di persistenza biologica a breve termine mediante inalazione ha mostrato che le fibre di lunghezza superiore a 20 μm presentano un tempo di dimezzamento ponderato inferiore a 10 giorni;
- una prova di persistenza biologica a breve termine mediante instillazione intratracheale ha mostrato che le fibre di lunghezza superiore a 20 μm presentano un tempo di dimezzamento ponderato inferiore a 40 giorni;
- un’adeguata prova intraperitoneale non ha rivelato evidenza di un eccesso di cancerogenicità;
- una prova di inalazione appropriata a lungo termine ha dimostrato assenza di effetti patogeni significativi o alterazioni neoplastiche.


Tab. 3 – Classificazione delle FAV tratta dall’Allegato VI del CLP

In fase ispettiva le condizioni normalmente rilevabili possono essere di due tipi:
- materiale nuovo di cui si dispone di scheda di sicurezza;
- materiale installato in epoca passata, a volte danneggiato, di cui di solito non si dispone di scheda di sicurezza.
Nel primo caso, salvo ulteriori accertamenti, la classificazione può essere desunta dalla scheda di sicurezza. A tale riguardo, l’attuale produzione di lane minerali di norma risponderebbe a quanto richiesto dalla nota Q, per cui le stesse risultano non classificate come cancerogene (neppure come sospette cancerogene) e anche non classificate come irritanti per la pelle. Il problema maggiore in questo caso è determinato dalla pressoché assoluta impossibilità di effettuare verifiche sulla dichiarazione del produttore, perché, se non risulta particolarmente difficile far effettuare verifiche sulla rispondenza della nota R (diametro geometrico medio), l’effettuazione di verifiche sulla veridicità dei test di biopersistenza (nota Q) pone problemi etici ed economici non facilmente superabili in fase ispettiva. Nei casi dubbi, si consiglia di interessare le strutture regionali competenti.
Nel secondo caso, è necessario verificare quali verifiche siano state effettuate dal datore di lavoro in sede di valutazione dei rischi e, laddove lo si ritenga opportuno per completare l’accertamento, si potranno sottoporre ad analisi campioni rappresentativi di materiali (una ricognizione dei metodi è riportata al punto 4 delle linee guida).
In conformità a quanto previsto dal Titolo IX del D.lgs. 81/08 l’esposizione a lane minerali artificiali ricade nell’ ambito del campo di applicazione del capo I «Protezione da agenti chimici», mentre la esposizione a fibre ceramiche refrattarie, in quanto classificate  cancerogene di categoria 1B, ricade anche nel campo di applicazione del capo II «Protezione da agenti cancerogeni e mutageni».
Ai sensi dell’art. 223 del D.lgs. 81/08, il datore di lavoro deve determinare preliminarmente l’eventuale presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro e valutare anche i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori derivanti dalla presenza di tali agenti. Dunque anche la semplice presenza (e non solo nel caso di esposizione come scritto nelle linee guida) determina l’obbligo di valutazione del rischio. Nel caso di materiali rientranti nell’ambito della definizione di cancerogeno (art. 234 del D.lgs. 81/08) l’obbligo di valutazione è preceduto e accompagnato dall’obbligo di sostituzione e riduzione.
Interessante l’indicazione della Linea guida circa i materiali contenenti Fibre ceramiche refrattarie laddove si assumono come indicazioni tecniche da seguire per garantire una protezione adeguata quelle previste nel D.M. 6.09.1994, relative alla bonifica di materiale contenente amianto (MCA).
Appare ovvio che, anche nel caso di operazioni di coibentazione/rimozione di lane minerali classificate come cancerogeni di classe 2, le misure che devono essere previste dal documento di valutazione dei rischi (o nel POS) potranno attingere dalle regole tecniche definite per i materiali contenenti amianto.
Nelle linee guida trovano spazio anche gli aspetti relativi all’esposizione a FAV negli ambienti di vita (punto 8) e alla gestione dei rifiuti (punto 9).
La linea guida ricorda che alle FAV sono associate malattie la cui origine lavorativa è di “elevata  probabilità” o la cui origine lavorativa è “possibile” dal Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 10/06/2014 «Aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’articolo 139 del TU approvato, con DPR 1124/65 e smi» (Tabella 4).


Tab. 4 – Aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia

Nell’allegato 2 delle linee guida è preso in esame l’obbligo di sorveglianza sanitaria per i lavoratori esposti ad agenti chimici e/o cancerogeni riportando a titolo orientativo alcuni protocolli proposti in ambito nazionale e internazionale.
Tra le indicazioni operative riportate nel paragrafo 10 delle linee guida, pare importante ricordare la formazione degli operatori che, prima dell’inizio della attività, dovranno essere adeguatamente informati e formati sui rischi e i danni derivanti dall’esposizione a fibre minerali artificiali e sulle modalità di utilizzazione dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), che a loro volta dovranno essere scelti e graduati in base alla tipologia dei materiali in lavorazione tenendo conto che le fibre minerali artificiali causano anche irritazioni cutanee e delle mucose.


1. Per la descrizione delle note si veda l’Allegato VI del Regolamento CLP (CE) 1272/2008.

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E' veramente possibile semplificare?
di G. Porcellana e M. Montrano

Semplificare significa rendere più semplice. In questo senso, rendere più semplice l’applicazione di una normativa come quella in materia di salute e sicurezza negli ambienti di lavoro rappresenta, senza dubbio, un vantaggio per tutti gli operatori. Ad una condizione però: i livelli di tutela devono essere comunque garantiti. Ma allora si può semplificare la complessità senza ridurre i livelli di tutela? Non sempre le “ricette” sin qui proposte hanno raggiunto lo scopo. Si ricorderà una misura di semplificazione “draconiana” costituita dalla possibilità, un tempo riconosciuta alle aziende sino a dieci lavoratori, di autocertificare l’effettuazione della valutazione dei rischi. Tale semplificazione, sicuramente gradita ad una fetta dei soggetti obbligati, finiva, in molti casi, per svuotare di significato concreto la misura di prevenzione primaria prevista dalla norma di tutela, ovvero la valutazione dei rischi. L’abolizione della norma sull’autocertificazione, sulla quale incombeva anche una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea, “desemplificava” il compito di migliaia di datori di lavoro ai quali si cercava di venire in soccorso con una nuova misura di semplificazione: le procedure standardizzate per la valutazione dei rischi ai sensi dell’articolo 6, comma 8, lettera f) e dell’art. 29, comma 5 del D.lgs. 81/08. Chi si attendeva da tali procedure una semplificazione si è presto reso conto che le stesse erano in molti casi più complete e complesse dei documenti “tradizionali”. Nella nostra esperienza è oggi abbastanza limitato l’uso di tali procedure standardizzate anche nelle aziende che ne potrebbero beneficiare, poiché la complessità della valutazione rimane (i rischi bisogna valutarli, tutti!) e quindi i consulenti incaricati preferiscono utilizzare il proprio “metodo tradizionale” piuttosto che avventurarsi tra le tabelle proposte dalla Commissione Consultiva Permanente. Valutare tutti i rischi, così come chiede la norma è una operazione complessa, anche per le aziende di piccola dimensione, in relazione alle condizioni di pericolo effettivamente presenti nell’attività, e il livello di approfondimento della valutazione deve, in ogni caso, consentire l’individuazione e l’adozione delle misure di prevenzione e protezione più adeguate a
tutelare il lavoratore, non essendo neppure ipotizzabile, né sul piano etico né sul piano normativo, livelli di tutela diversi a seconda della dimensione aziendale. Il tentativo di “standardizzare” si scontra con la
necessità di contestualizzare l’applicazione concreta delle misure di sicurezza e, a ben vedere, la distanza e l’equilibrio tra queste due modalità di intendere il progetto della sicurezza aziendale riporta alla diversa filosofia che ha caratterizzato le norme degli anni ’50 rispetto alla più recente normativa di derivazione europea. Non appare neppure agevole una semplificazione degli adempimenti documentali poiché è normale che la valutazione dei rischi richieda la redazione di relazioni tecniche, certificazioni di misure e di rilievi, ecc. che è impossibile pensare di redigere in modo diverso dalla forma scritta o dalla forma digitale. E, in ogni caso, è necessario che venga lasciata traccia (con data certa o certificata) dei criteri e delle scelte adottate nel percorso valutativo. Non meno importante è l’individuazione delle misure, molto spesso procedurali, che debbono essere adottate per governare i rischi individuati. E anche in questo caso è molto più pratico che tali procedure siano scritte. Sarebbe necessaria una maggior disponibilità di soluzioni proposte attraverso linee guida e buone prassi, lasciando alla responsabilità del datore di lavoro la valutazione concreta della scelta della miglior soluzione a tutela dei propri lavoratori. Un vero e proprio esercizio di “sartoria” che il datore di lavoro esegue con il proprio sistema di prevenzione aziendale. Ma ci si rende conto che per attuare una tale politica occorre, in ogni caso, una competenza specifica, che in molti casi manca. La ridotta o ridottissima dimensione della maggior parte delle imprese pone un problema di risorse umane e materiali non adeguate a far fronte agli adempimenti richiesti dalla norma e neppure gli strumenti di semplificazione oggi definiti sembrano alla portata di queste realtà, che si vedono costrette a rivolgersi a professionisti esterni. Per assurdo la soluzione di questo problema potrebbe passare attraverso un aumento della complessità, adottando politiche che indirizzino all’aggregazione delle microimprese, magari sfruttando il ruolo, sin qui complessivamente deludente, della pariteticità. Altro tentativo di semplificazione, sicuramente interessante è costituito dal decreto 13 febbraio 2014 (avviso in Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2014) recante «Procedure semplificate per l’adozione de modelli di organizzazione e gestione (MOG) nelle piccole e medie imprese (PMI)». La letteratura porta in evidenza la riduzione degli indici di frequenza e degli indici di gravità degli infortuni sul lavoro per le aziende in cui sia applicato efficacemente un Sistema di Gestione di Sicurezza Lavoro (SGSL) e quindi una maggior diffusione dell’applicazione dei sistemi di gestione della sicurezza non può che essere favorita. Ma la proposta rivolta alle piccole e medie imprese contenuta nelle procedure semplificate sopra citate non convince appieno. Al di là di alcune imprecisioni presenti nel documento, e pur riconoscendo l’impegno a fornire una traccia di lavoro, non può sfuggire il fatto che la complessità, non semplificabile, è quella dei contenuti delle procedure e della assimilazione concreta nella pratica aziendale dei meccanismi del modello. In altri termini, l’adozione e l’efficace applicazione di un SGSL richiede impegno e risorse e chi si aspettava la possibilità di raggiungere l’obiettivo compilando dei semplici moduli rischia di rimanere deluso. Si potrebbe invece semplificare quella parte della norma dove ancora si prevede una valutazione preventiva da parte degli organi di vigilanza. Si pensi ad esempio all’articolo 67 del D.lgs. 81/08 che, ereditando il testimone dal precedente articolo 48 del DPR n. 303/56, ancora oggi richiede la notifica all’organo di vigilanza in caso di costruzione e di realizzazione di edifici o locali da adibire a lavorazioni industriali, nonché nei casi di ampliamenti e di ristrutturazioni di quelli esistenti. La procedura prevista dal DPR 7 settembre 2010, n. 160, e la specifica modulistica approvata dal DM 18/4/2014 comprimono i tempi di analisi dei progetti e riducono, rispetto al passato, le informazioni disponibili per l’organo di vigilanza. Anche la pratica amministrativa disciplinata dall’articolo 256 del D.lgs. 81/08 in relazione alla rimozione di materiali contenenti amianto che attualmente prevede la presentazione di un piano di lavoro all’organo di vigilanza, che ha a disposizione un termine di trenta giorni per impartire eventuali prescrizioni operative o richiedere integrazioni non ha dimostrato evidenze preventive. Una forma di semplificazione possibile potrebbe essere quella di limitare l’obbligo alla notifica già prevista dall’art. 250 del D.lgs. 81/08 assicurando un minimo di preavviso per consentire all’organo di vigilanza l’eventuale programmazione dei controlli. Se è vero, come è vero, che tutti gli attori del sistema richiedono una semplificazione degli adempimenti, il “rischio” che si corre è quello di indebolire le tutele, dunque la semplificazione dovrebbe agire su quelle norme che non hanno dimostrato di produrre effetti preventivi efficaci, mentre difficilmente si potrà agire sui capisaldi della normativa costituiti dalla valutazione dei rischi e dalla individuazione e adozione delle conseguenti misure di prevenzione e protezione, campi nei quali un’opera di aiuto alle imprese potrebbe essere costituita da una maggiore disponibilità di buone prassi e linee guida.
Alla fine del 1800, due giornalisti tedeschi, attraverso un giornale satirico-umoristico intitolato “Simplicissimus” furono imputati di lesa maestà per aver pubblicato articoli palesemente contrari al regime tedesco e alla chiesa. Speriamo di non correre lo stesso rischio affermando che le strade sino ad oggi percorse dal legislatore per cercare di “semplificare” gli obblighi del datore di lavoro in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro sono miseramente fallite. Il riscontro di tale affermazione è facilmente individuabile dallo sconforto espresso dagli addetti ai lavori dopo la lettura di ogni nuovo provvedimento emanato in tal senso con l’impressione netta e chiara che le tanto declamate semplificazioni spesso portano con sé ulteriori complicazioni soprattutto di tipo interpretativo. Se questo è il risultato forse allora è meglio smettere. Sic et simpliciter.

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Testis non est iudicare: il filo sottile tra racconto dei fatti e le considerazioni tecniche del teste
di Michele MONTRANO

Come è noto nel diritto penale la testimonianza è regolata dagli articoli dal 194 al 207 del c.p.p. e rappresenta uno strumento fondamentale di prova. E' all'interno del dibattimento che la testimonianza trova la sua naturale concretizzazione come prova. A nulla rileva il fatto che il soggetto sia stato già sentito durante le indagini preliminari come "persona informata sui fatti". Infatti il giudice, a differenza delle parti, non conosce la precedente deposizione. E' possibile che in caso di dichiarazioni diverse, rispetto alla precedente deposizione, il soggetto che sta esaminando il teste può invocare la "contestazione" esponendo la precedente dichiarazione e chiedendo alla persona di giustificare le relative difformità. Ciò nonostante quello che emergerà in dibattimento sarà utilizzabile come prova.
La testimonianza deve avere come oggetto i fatti determinati, specifici, ed il teste non può esprimere né giudizi morali, sociali o giuridici, né apprezzamenti personali o voci correnti. Infatti l'articolo 194,comma 3, c.p.p. dispone che il "testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti". E' una regola che rappresenta l'espressione del brocardo latino "testis non est iudicare" per evitare che la testimonianza possa trasformarsi in una soggettiva interpretazione dei fatti. Tuttavia è consentito esprimere apprezzamenti che non possono essere scissi dalla deposizione dei fatti e sarà il Giudice ad impedire inammissibili valutazioni personali.(1)
La questione appare significativamente evidente nelle cosiddette "testimonianze tecniche" dove il teste inevitabilmente riporta, nella propria deposizione, alcune considerazioni che appartengono alle proprie conoscenze in materia. Più volte al sottoscritto, chiamato a testimoniare su numerosi procedimenti relativi a infortuni sul lavoro, si è palesato il dubbio se durante la deposizione in aula non abbia travalicato la linea sottile tra esposizione del fatto e considerazione tecnica legata all'evento.(2)
Recentemente il problema è stato affrontato dalla Suprema Corte in relazione all'esame di una sentenza relativa ad un caso di infortunio sul lavoro.(3) Il caso riguardava un evento lesivo avvenuto il 15 ottobre 2004 per caduta da una impalcatura priva dei necessari presidi di sicurezza. Il datore di lavoro era stato tratto a giudizio davanti al Tribunale di Ancona per rispondere del reato di cui all'articolo 590 c.p. commi 2 e 3 in relazione alle contravvenzioni di cui agli articoli 16 e 24 del D.P.R. n. 164/56. Il Tribunale sentenziava la penale responsabilità dell'imputato e lo condannava, per le contravvenzioni, alla pena di mesi tre di arresto, e per le lesioni colpose gravi alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, con i doppi benefici, oltre al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
Seguiva ricorso in appello ed in data 29 settembre 2011, in parziale riforma della sentenza, all'imputato veniva ridotta la pena per intervenuta prescrizione relativamente ai soli reati contravvenzionali.
Il datore di lavoro proponeva ricorso in Cassazione adducendo, tra i vari motivi, anche l'illegittima acquisizione della testimonianza dell'ispettore della A.S.L. che aveva svolto l'indagine. Il ricorrente lamentava infatti che i giudici di merito avevano ritenuto la responsabilità penale dell'imputato fondando il proprio convincimento, principalmente, sulle dichiarazioni rese dal teste del pubblico ministero, appunto un ispettore, quasi aderendo in maniera acritica alle stesse. Il predetto teste infatti, oltre ad alcuni chiarimenti in merito all'attività da lui svolta, si sarebbe spinto a compiere, in sede dibattimentale, apprezzamenti e valutazioni, quanto alla dinamica dell'evento, con riferimento a dichiarazioni di altri soggetti sentiti a sommarie informazioni nella fase delle indagini preliminari, sebbene egli non avesse assistito all'evento dannoso, assumendo in tal modo il ruolo di consulente tecnico del pubblico ministero. Tale prova, pertanto, ad avviso dell'imputato ricorrente, sarebbe stata illegittimamente acquisita e quindi inutilizzabile e, pertanto, la sentenza impugnata, avendo avuto la testimonianza di cui sopra una efficacia determinante sul convincimento del giudice, doveva essere annullata.
In via preliminare la Corte di Cassazione osserva che con riferimento al reato contestato al ricorrente previsto dall'articolo 590 commi 2 e 3 c.p., commesso in data 15 ottobre 2004, risulta essere decorso il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei. Dichiara comunque infondati i motivi di ricorso ai fini delle statuizioni civili ed in particolare con riferimento alla utilizzabilità delle dichiarazioni dell'ispettore della A.S.L. affermando che il suddetto teste riferì quanto accertato nell'espletamento dell'attività di indagine svolta nella sua qualità di ispettore dell'ASUR in materia di lavoro, intervenuto sul luogo dell'infortunio per gli accertamenti, testimone quindi particolarmente esperto in materia infortunistica.
La Corte ha ricordato che sul punto si è espressa la condivisibile giurisprudenza di Cassazione (cfr, tra le altre, Cass., Sez. 2, Sent. n 44326 dell'11.11.2010, Rv. 249180) secondo cui il divieto di apprezzamenti personali del testimone non è riferibile ai fatti direttamente percepiti dallo stesso, al quale, a causa della speciale condizione di soggetto qualificato, per le conoscenze che gli derivano dalla sua abituale e specifica attività, non può essere precluso di esprimere apprezzamenti, se questi sono inscindibili dalla deposizione sui fatti stessi.

note
(1) Si veda sentenza Cass., 6 giugno 2005, n. 11747: "E' principio costantemente affermato in giurisprudenza che la prova testimoniale deve avere ad oggetto fatti e non apprezzamenti e che il giudice del merito deve negare valore probatorio decisivo alle deposizioni testimoniali che si traducono in una interpretazione soggettiva ovvero in un mero apprezzamento tecnico del fatto (cfr. Cass. n. 5 del 2001, Cass. n. 2270 del 1998, Cass. n. 4111 del 1995). Per le valutazioni di natura specialistica e tecnica della situazione da esaminare il giudice del merito poteva opportunamente avvalersi dello strumento giuridico specifico offertogli dal codice di rito, ossia di una consulenza tecnica d'ufficio, che oltretutto offriva maggiori garanzie di tutela per il contraddittore."
(2) A tal fine è utile citare la sentenza di Cass. pen., 19 settembre 2007, n. 40840: "Sono ammissibili ed utilizzabili le dichiarazioni del testimone "tecnico", ovvero particolarmente esperto in un dato settore, che riferisca dati di fatto, sia pur nella percezione "qualificata" consentita dalle sue speciali conoscenze, non anche quelle contenenti valutazioni dei predetti dati di fatto secondo il soggettivo apprezzamento del testimone, che potrebbero entrare a far parte del materiale probatorio soltanto attraverso una consulenza tecnica (od una perizia)". Si veda anche la sentenza n. 12942 del 16/01/2007: "Non incorre nel divieto di esprimere apprezzamenti personali il testimone, che, in forza della specifica preparazione tecnica, risponde su fatti e circostanze concernenti la sua attività professionale e fornisce elementi di supporto agli atti compiuti dalla polizia giudiziaria. (Fattispecie in cui il testimone, in un procedimento per i reati di truffa e falso in titoli di credito, aveva affermato, a proposito di un assegno bancario, che era una riproduzione fotostatica idonea a trarre in inganno il beneficiario del titolo)"
(3) Cassazione Penale, Sez. 4, 17 gennaio 2013, n. 2572.

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LA CONFISCA AMMINISTRATIVA IN MATERIA DI LAVORO
di Michele MONTRANO

L'articolo 9 del decreto legge n. 187/2010 ha introdotto il provvedimento di confisca amministrativa in materia di lavoro. Secondo la prima stesura di detto articolo, che inseriva un nuovo comma all'articolo 20 (sanzioni amministrative accessorie) della legge n. 689/91 (Modifiche al sistema penale), la sanzione accessoria della confisca amministrativa è obbligatoria ed è adottata dagli ispettori del lavoro in presenza di violazioni gravi o reiterate, in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro e si riferisce alle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione e delle cose che ne sono il prodotto.
Tale provvedimento è disposto anche se non viene emessa l'ordinanza-ingiunzione di pagamento. La norma dispone, quindi, una deroga al principio generale sancito dal primo comma dell'art. 20 della legge n. 689/81 che invece prevede che l'autorità amministrativa possa applicare le sanzioni amministrative o penali accessorie consistenti nella privazione o sospensione di facoltà e diritti solo previa ordinanza-ingiunzione o sentenza di condanna.
La disposizione non trova applicazione se la cosa appartiene a persona estranea alla violazione amministrativa e quindi è vietata nell’ ipotesi in cui la cosa oggetto della confisca appartiene a terzi estranei alla sanzione amministrativa per evitare che il maggior pregiudizio della sanzione accessoria prevista con la riforma dell’ art. 20 legge n. 689/81 cada proprio su una persona estranea alla sanzione amministrativa.
In sede di conversione in legge, il legislatore ha ritenuto di dover modificare il testo dell'articolo 9 del decreto legge n. 187/2010 aggiungendo le seguenti parole: "ovvero quando in relazione ad essa e' consentita la messa a norma e quest'ultima risulta effettuata secondo le disposizioni vigenti.
Pertanto alla luce del testo definitivo la confisca amministrativa è altresì vietata a due condizioni:
se viene consentita la messa a norma ed effettivamente questa messa a norma viene effettuata secondo le disposizioni vigienti.
Come è noto in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro l'art. 301-bis del D. Lgs n. 81/2008 (Estinzione agevolata degli illeciti amministrativi a seguito di regolarizzazione) stabilisce che in tutti i casi di inosservanza degli obblighi puniti con sanzione pecuniaria amministrativa il trasgressore, al fine di estinguere l’illecito amministrativo, è ammesso al pagamento di una somma pari alla misura minima prevista dalla legge qualora provveda a regolarizzare la propria posizione non oltre il termine assegnato dall’organo di vigilanza mediante verbale di primo accesso ispettivo. Pertanto appare evidente che in questo caso è sempre consentita la regolarizzazione da parte del trasgressore e quindi il personale ispettivo potrà effettivamente attivare il provvedimento di confisca ammiistrativa solo dopo aver accertato che il trasgressore non ha effettuato la messa a norma allo scadere del termine assegnato mediante il verbale di primo accesso ispettivo.
Si ricorda che contro il provvedimento di confisca, può essere proposto opposizione avanti al tribunale civile entro 30 giorni dalla notifica del provvedimento. La competenza territoriale è del tribunale del luogo dove è avvenuto l’illecito.
Per le violazioni di natura penale deve ritenersi che l'autorità che irroga la sanzione amministrativa accessoria sia quella stessa che ordina la sanzione penale, cioè il giudice ordinario.
Siamo di fronte quindi ad un ulteriore strumento persuasivo nei confronti di coloro che violano la normativa in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro ed un ulteriore carico di lavoro per personale ispettivo chiamato a far rispettare la normativa.

Art. 9 del decreto legge n. 187/2010 convertito con modificazioni dall legge n. 217/2010
Modifiche alla legge 24 novembre 1981, n. 689, in materia di confisca.
1. All'articolo 20 della legge 24 novembre 1981, n. 689, dopo il terzo comma e' inserito il seguente: «In presenza di violazioni gravi o reiterate, in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, e' sempre disposta la confisca amministrativa delle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione e delle cose che ne sono il prodotto, anche se non venga emessa l'ordinanza - ingiunzione di pagamento. La disposizione non si applica se la cosa appartiene a persona estranea alla violazione amministrativa ovvero quando in relazione ad essa e' consentita la messa a norma e quest'ultima risulta effettuata secondo le disposizioni vigenti.».


 
 
 
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